Ritorniamo sul tema dazi, in particolare nel settore automotive. Perché, al netto degli slogan, è una battaglia ancora lunga.
E a farne le spese rischiano di essere proprio le imprese che si voleva proteggere.
Ma attenzione: chi spera in un “ritorno della manifattura in USA” rischia di restare deluso. Perché le dinamiche sono più complesse — e il rischio è che l’Occidente resti impantanato mentre la Cina accelera.
Il problema strutturale: una supply chain ormai globalizzata
Come mostrato anche da una recente analisi del Wall Street Journal, l’industria automobilistica oggi è interamente intrecciata su scala globale. Le auto non sono prodotte in un solo Paese, ma assemblate a partire da componenti che rimbalzano più volte tra continenti.
Un chip prodotto a Taiwan può finire in una centralina assemblata in Messico, per poi essere montato su un’auto in Michigan. Se ogni passaggio viene colpito da dazi, il costo finale può salire — secondo alcune stime — tra i 3.000 e i 20.000 dollari a veicolo.
Trump vuole riportare la produzione in patria. Le aziende frenano
L’obiettivo di Trump è chiaro: rilocalizzare la produzione, riportare lavoro in patria. Ma nessuna casa automobilistica seria può farlo “al volo”.
Basterebbe aver lavorato anche un solo giorno nel settore per saperlo: spostare uno stabilimento richiede anni. Non basta alzare i muri. Bisogna costruire attorno una catena di fornitura, e questo significa investimenti enormi.
E soprattutto, serve stabilità e visione di lungo periodo.
Condizioni oggi assenti.
Nel dubbio, la Cina accelera.
Mentre USA ed Europa restano bloccati da incertezza e calcoli elettorali, i colossi cinesi — che controllano internamente l’intera filiera — possono muoversi con rapidità.
Non subiscono colpi di rimbalzo. E non hanno bisogno di “tornare a casa”, perché non sono mai usciti.
I dazi frenano chi dovrebbero proteggere
Ecco il paradosso: i dazi rischiano di diventare un boomerang per chi voleva tutelarsi.
Le aziende ragionano su orizzonti di 10–15 anni. Non decidono spostamenti sulla base di tweet o comizi. Hanno bisogno di certezze normative e geopolitiche, non di misure temporanee.
In un contesto dove il vento cambia ogni quadrimestre, non c’è alcun incentivo a investire in patria.
La Cina punta sulla struttura. L’Occidente sulle reazioni.
Nel frattempo, la Cina costruisce gigafabbriche, centri R&D e filiere interne. Riduce i costi. Innova. Occupa quote di mercato crescenti.
In Europa, alcuni costruttori tedeschi iniziano a temere una concorrenza asimmetrica: loro devono rispettare standard ambientali e salariali stringenti. I rivali cinesi no.
E intanto arrivano sul mercato con modelli competitivi, filiere agili e una visione strategica ben chiara.
Una guerra che non si vince con i dazi
Il caso automotive è solo un esempio. Ma mostra bene come le guerre commerciali, senza visione strategica e investimenti strutturali, si trasformano in autogol.
Bloccare la concorrenza esterna senza rafforzare davvero quella interna significa solo prendere tempo. Non risolvere il problema.
E la Cina, nemica giurata di Trump, quel tempo lo sta usando per correre.
Focus operativo: azioni Ford
In questo scenario, il titolo Ford ha segnalato due END-BOTTOM consecutivi nelle ultime settimane.
Un segnale da monitorare con attenzione perché potremmo essere vicini a un ritorno al verde di Trendycator qualora i dazi venissero tolti o a una lunga fase laterale.

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