Negli ultimi mesi i dati europei sull’inflazione hanno mostrato un raffreddamento apparente. In Germania, a ottobre, i prezzi al consumo si sono attestati al +2,3% annuo, mentre l’indice dei prezzi all’ingrosso ha segnato un modesto +1,1%. Numeri che suggeriscono stabilità, ma che raccontano solo una parte della storia.

Perché, quando ci si sposta a sud del Reno, la fotografia cambia. E in Italia, anche se l’indice generale rallenta, il costo reale della vita – quello che incontriamo ogni giorno nel carrello della spesa – continua a correre.

Inflazione Italia 2025: dati ufficiali e realtà quotidiana a due velocità diverse

Nel nostro Paese, l’indice armonizzato dei prezzi al consumo (IPCA) di ottobre segna un +1,3% tendenziale, ben al di sotto della media europea (+2,1%), il livello più basso da oltre tre anni.

Eppure, come certifica l’ISTAT, la spesa alimentare continua a correre.

Dal 2021 al 2025 i prezzi dei beni alimentari sono aumentati del 24,9%, contro un +17,3% dell’indice generale. Un dato che da solo basterebbe a spiegare il disagio di milioni di famiglie, costrette a rivedere le proprie abitudini di consumo.

Il presidente di Assoutenti, Gabriele Melluso, parla di carrello sempre più vuoto: le vendite alimentari sono calate dell’8,8% in volume, mentre i prezzi continuano a salire. Carne +5,8%, formaggi +6,8%, uova +7,2%, burro +6,7%, riso +4,6%.

E per alcuni prodotti – caffè, cacao, cioccolato – gli aumenti toccano le due cifre. Il risultato è una “inflazione delle spese obbligate”, che colpisce soprattutto i redditi fissi e riduce il margine di risparmio disponibile, così gli italiani spendono di più per comprare meno.

Un paradosso che pesa sul reddito reale

Dietro i numeri si nasconde un fenomeno meno visibile ma più insidioso: la disinflazione non è sinonimo di sollievo economico.

Quando i prezzi rallentano, non significa che scendono, ma che aumentano più lentamente. Se per tre anni consecutivi i beni essenziali crescono del 5-10%, il loro livello resta comunque più alto, e il potere d’acquisto difficilmente recupera.

È la logica della perdita cumulata. Di fatto, è il concetto dell’interesse composto applicato all’erosione del nostro potere d’acquisto anziché al rendimento di un investimento.

Chi nel 2021 spendeva 100 euro per la spesa alimentare oggi ne spende circa 125. Anche se l’inflazione “ufficiale” è bassa, i prezzi non tornano indietro. E mentre le famiglie si adattano, i salari reali restano fermi: secondo l’OCSE, tra il 1991 e il 2021 i salari medi italiani sono cresciuti di appena lo 0,36%, contro il +33% tedesco e il +31% francese.

La conseguenza è che ogni shock inflazionistico ci lascia più poveri di prima. In sostanza, l’indice dei prezzi rallenta, ma i redditi non recuperano.

Inflazione reale e inflazione percepita

Il problema non è solo economico, ma anche statistico. Come ricordiamo nella nostra approfondita analisi sulla dinamica inflattiva, l’inflazione “ufficiale” è calcolata su un paniere medio di beni e servizi.

Ma nessuna famiglia spende in media. Chi destina gran parte del proprio reddito a cibo, trasporti o energia subisce un’inflazione molto più alta di quella registrata dai dati nazionali.

Questo scarto tra inflazione “statistica” e inflazione “personale” è ciò che gli economisti chiamano divario percettivo – ed è la ragione per cui molti cittadini sentono di vivere peggio anche quando i dati macroeconomici sembrano migliorare.

In termini pratici, non è la media a contare, ma la composizione della spesa reale.
E se le categorie essenziali continuano a rincarare, la sensazione di impoverimento diventa realtà economica.

Negli ultimi dieci anni, il costo dei beni essenziali è cresciuto circa del 52%, mentre quello dei beni tecnologici è diminuito. La media dei due genera un’illusione di stabilità che non riflette la realtà dei consumi quotidiani.

È così che la statistica attenua l’impatto di un fenomeno che, per molti italiani, è invece tangibile ogni mese al supermercato o alla cassa del distributore.

L’inflazione percepita è più alta perché colpisce dove la spesa è incomprimibile. Chi deve riempire il carrello o pagare la bolletta non può “diversificare” i propri consumi come avviene nei calcoli del paniere ISTAT.

Un rallentamento che non basta a rassicurare i mercati

La divergenza tra Germania e Italia è più profonda di quanto sembri. In Germania, l’aumento dei prezzi all’ingrosso indica una ripresa della domanda interna, mentre nel nostro Paese il rallentamento dell’inflazione è legato alla debolezza dei consumi.

Il Pil italiano nel terzo trimestre 2025 è rimasto stazionario, mentre la produzione industriale è scesa dello 0,5% su base congiunturale.

La domanda interna, pur sostenuta da occupazione e servizi, non riesce a generare crescita. E quando la crescita è piatta, l’inflazione bassa non è un successo: è il sintomo di un sistema che non si muove.

L’inflazione si “ferma”, ma i soldi valgono sempre meno

L’inflazione non è solo una percentuale in un report statistico: è una riduzione costante del potere d’acquisto che agisce in silenzio.

Non lo percepiamo subito, ma anno dopo anno il valore reale dei risparmi diminuisce, proprio come se una parte venisse erosa da un prelievo invisibile.

Non è questione di allarme, ma è necessario prenderne atto: in un contesto di prezzi in crescita costante, lasciare il denaro fermo troppo a lungo equivale a ridurne lentamente il valore reale.

Questo non significa che ogni euro debba essere investito (anzi), ma che ogni scelta — anche quella di non fare nulla — ha un costo implicito nel tempo.

Il punto non è “muovere i soldi”, ma capire quando e perché conviene mantenerli liquidi e quando invece proteggerli in modo più strutturato.

Solo a titolo di esempio, negli ultimi vent’anni, un capitale di 100.000 euro tenuto liquido in Italia avrebbe perso oltre il 40% del potere d’acquisto reale.

Investire non basta: serve una strategia anti-erosione

L’idea che “basta investire per battere l’inflazione” è una semplificazione pericolosa. In realtà, come mostrano i dati storici riportati nella nostra guida, non tutti gli investimenti battono l’inflazione, e molti periodi hanno visto rendimenti reali negativi anche sui mercati azionari.

Tra il 2000 e il 2010, ad esempio, l’S&P 500 ha registrato un rendimento medio annuo del –1,3%. Chi avesse investito in quell’arco di tempo, avrebbe perso sia nominalmente sia in termini reali.

Nel biennio 2022-2023, poi, persino il mercato obbligazionario – da sempre considerato un rifugio – ha subito perdite (anche fino al 20%), travolto dai rialzi dei tassi.

Questo dimostra che nessun asset è immune e che la protezione del capitale non è automatica: richiede una strategia dinamica, capace di adattarsi ai cicli economici.

Però, nello stesso periodo, chi possedeva BTP Italia indicizzati all’inflazione italiana o altri titoli indicizzati, ha invece evitato le perdite, beneficiando della rivalutazione delle cedole e del capitale.

La differenza non è tra chi investe e chi no, ma tra chi applica una strategia e chi si affida all’abitudine. Proteggere il capitale oggi significa pensare in termini reali: rendimento al netto dell’inflazione.

Non conta quanto si guadagna nominalmente, ma quanto si conserva in termini di potere d’acquisto.

Proteggere il potere d’acquisto: questione di metodo, non di fortuna

Per difendersi dall’inflazione, purtroppo, non è possibile affidarsi ad una formula magica: è necessario un processo di adattamento continuo, basando il portafoglio su logiche diverse, dove certamente le obbligazioni indicizzate hanno un ruolo centrale nel mantenere il legame con il costo della vita.

Ma, soprattutto, serve la capacità di ribilanciare. L’inflazione non è una costante, è un ciclo che cambia intensità e natura.
Chi resta fermo, o inchiodato sulle proprie posizione lo subisce.

Si tratta, cioè, di costruire una strategia adattiva, come suggeriamo nel nostro approccio educativo: un portafoglio che combini asset decorrelati e strumenti reali di difesa, come le obbligazioni indicizzate all’inflazione, gli asset reali e la liquidità strategica per cogliere opportunità nei momenti di correzione.

Proteggere il potere d’acquisto significa comprendere a fondo che l’inflazione non è un evento passeggero: è un meccanismo permanente di erosione del valore reale del denaro e rischia di penalizzare chi non adotta una metodologia per contrastarlo.

Per approfondire l’argomento e capire come l’inflazione incide davvero sui risparmi — e quali strumenti possono aiutarti a difendere il potere d’acquisto nel tempo — abbiamo realizzato un’analisi completa nella nostra guida gratuita “Difendersi dall’inflazione: la verità che nessuno ti racconta”.

[Scarica la guida completa →]

Conclusione: inflazione sotto controllo, potere d’acquisto no

Il rallentamento dell’inflazione italiana certificato dall’ISTAT non è la fine del problema, ma una pausa nel suo ciclo. Il nodo resta la divaricazione tra inflazione ufficiale e inflazione reale, tra numeri rassicuranti e bilanci familiari in affanno.

Finché il costo dei beni essenziali continuerà a crescere più dei redditi, la ripresa del potere d’acquisto resterà una formula retorica.

Difendere i propri risparmi oggi significa trasformare questa consapevolezza in strategia. Non serve inseguire rendimenti eccezionali, serve impedire, ogni anno, che il tempo e i prezzi ci rendano un po’ più poveri, perché il valore reale dei nostri risparmi è la prima forma di libertà economica da difendere.

Disclaimer
Le analisi e i dati riportati hanno esclusivamente finalità informative, esemplificative e formative.
Non costituiscono in alcun modo sollecitazione al pubblico risparmio, consulenza personalizzata o raccomandazioni di investimento.
I riferimenti a strumenti finanziari e dati economici (titoli di Stato, obbligazioni, indici, curve ZC Yield o forward su Euribor) sono citati solo a scopo illustrativo e didattico, per spiegare dinamiche di mercato e tendenze macro-finanziarie.
I rendimenti, i prezzi e le valutazioni menzionati riflettono il contesto al momento della pubblicazione e non devono essere considerati indicazioni operative.
Gli autori e la testata non detengono interessi diretti negli strumenti o negli emittenti citati e non assumono alcuna responsabilità per decisioni di investimento basate sulle informazioni contenute nel presente report.

Share.

Dr. Massimo Gotta, giornalista-pubblicista iscritto all'Ordine dei Giornalisti di Torino. Laureato in Scienze Politiche e in Giurisprudenza è uno dei più apprezzati analisti finanziari italiani, tra i fondatori del Circolo degli Investitori e ha alle spalle una lunga carriera professionale nel mondo bancario e finanziario. Ha lavorato per il gruppo bancario Mediobanca e per Banca Sella come responsabile Ufficio Titoli e Borsino ed in seguito Gestore di patrimoni presso la struttura Private Banking. È stato docente per l’Università degli Studi di Torino e la Scuola di Amministrazione Aziendale di Torino. Massimo Gotta è un apprezzato opinionista per diversi media finanziari tra cui Repubblica.it, LombardReport.com, Il Valore, Class CNBC. È coautore con Walter Demaria di “Investire in obbligazioni” (TradingLibrary 2013) e autore di diversi altri libri tra cui “Il meglio dell’analisi tecnica in Metastock” (Experta 2006). Disclaimer: L’autore Massimo Gotta non detiene strumenti finanziari oggetto delle proprie analisi al momento della pubblicazione. Il nostro giornale rispetta la Carta dei Doveri dell’Informazione Economica Clicca qui--> Informazioni metodo Clicca qui-->

Comments are closed.