Per anni l’Europa ha vissuto in un contesto di inflazione bassa e salari in progressiva erosione reale, con impatti molto diversi tra i Paesi membri. Ora, con Francia e Germania in rallentamento, il quadro si sta uniformando verso il basso: la perdita di potere d’acquisto, che per oltre un decennio aveva colpito soprattutto il Sud Europa, sta iniziando a farsi sentire anche al centro del continente.
I numeri: salari e inflazione a confronto
Dal 2007 al 2024 i salari italiani sono cresciuti di circa il 26%, contro un’inflazione cumulata del 35,4%: in termini reali, significa un calo del potere d’acquisto di oltre 9 punti percentuali.
In Spagna, la crescita nominale è stata più alta (+35%), ma l’inflazione (+40,5%) ha comunque eroso il vantaggio, portando a un saldo reale di –5,5%. Finora Francia e Germania avevano seguito un percorso diverso. In Francia i salari nominali sono aumentati di oltre il 52%, circa 16 punti sopra l’inflazione. In Germania il saldo reale positivo è di circa +6,5%.
Oggi però entrambe le economie stanno affrontando un contesto più difficile: deficit pubblici in aumento, rallentamento della produttività e pressioni sul costo del lavoro. Il rischio di un’inversione – con salari reali in calo anche nei Paesi “forti” – non è più remoto.
Cosa significa per chi investe
Quando i salari reali si contraggono, il tema non è solo sociale: diventa finanziario.
Una riduzione del potere d’acquisto implica che la moneta si svaluta nel tempo, anche in assenza di shock inflazionistici evidenti.
Chi detiene capitale liquido o titoli a tasso fisso subisce lo stesso meccanismo, ma in modo silenzioso: ogni anno, il rendimento reale si riduce di qualche punto percentuale rispetto all’inflazione cumulata. È in questo contesto che i titoli indicizzati all’inflazione tornano ad assumere un ruolo strategico.
Che siano legati all’indice dei prezzi italiano (FOI ex tabacchi) o a quello europeo (HICP), questi strumenti offrono una copertura diretta contro la perdita di potere d’acquisto. Naturalmente, non sono la risposta a tutto – restano sensibili ai movimenti dei tassi nominali e alla curva reale – ma rappresentano un modo concreto per riequilibrare portafogli troppo esposti a rendimenti nominali fissi.
Un equilibrio necessario
Dopo un decennio in cui la parola “inflazione” era quasi scomparsa dal lessico comune, il 2021–2023 ha ricordato quanto velocemente il potere d’acquisto possa ridursi.
Oggi, anche se i tassi stanno tornando a livelli più gestibili e le pressioni sui prezzi sembrano rallentare, il rischio principale non è tanto “nuova inflazione”, quanto la persistenza di un’inflazione strutturalmente più alta rispetto agli standard pre-2020.
Per l’investitore privato, questo scenario implica una revisione di logiche consolidate:
- I titoli a tasso fisso tornano utili per la componente di rendimento certo, ma non bastano.
- Gli inflation linked diventano il contrappeso naturale, soprattutto su orizzonti medio-lunghi.
- Le decisioni di portafoglio devono integrare la variabile “inflazione reale attesa”, non solo quella dichiarata nei report macroeconomici.
Conclusione
La crisi dei salari non è un’anomalia temporanea: è il riflesso di un’Europa che sta cercando un nuovo equilibrio tra crescita, produttività e costo del denaro.
In questo contesto, ignorare la protezione dall’inflazione significa accettare, di fatto, una perdita certa nel tempo.
I titoli indicizzati – italiani o europei – non sono certo la soluzione a ogni rischio, lo sappiamo bene, ma rappresentano una delle poche difese concrete contro un fenomeno che, più dei mercati, continua a ridisegnare la ricchezza reale dei risparmiatori.
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